Julia Ducournau torna dopo l’uragano Titane e ci trascina in un incubo anni ’80 fatto di aghi sporchi e adolescenti che scoprono la vita, proprio mentre la morte gli si avvicina. Un film che non esplode come i precedenti, ma corrode e pietrifica: meno selvaggio, più intimo, un requiem lento, avvolgente e dolente.
Crescere nell’incubo
Francia, periferia parigina, anni ’80. Alpha, tredici anni e un’irrequietezza che le brucia dentro, torna da una notte di baldoria con un enorme tatuaggio a forma di “A” inciso sul braccio. Ma l’ago era sporco, e con esso potrebbe aver contratto un virus misterioso che trasforma i corpi in statue di pietra destinate a sgretolarsi in sabbia. Sua madre, medico in un ospedale ormai invaso da malati pietrificati, combatte disperatamente per salvare i pazienti e proteggere la figlia. A complicare tutto arriva Amin, lo zio tossicodipendente, che si rifugia in casa già infetto, deciso a non morire tra le corsie. Tra aghi, sangue e stigma sociale, Alpha affronta un’adolescenza vissuta sull’orlo dell’abisso, tra paura, ribellione e compassione. Un percorso lacerante che culmina nel vento rosso della morte e nella fragile, struggente bellezza della perdita.
Non si esce vivi dagli anni '80
Alpha ci trascina negli anni ’80, un’epoca marchiata dal doppio incubo dell’AIDS e dell’eroina. È un mondo dove il contagio è un sussurro che diventa grido, dove ogni ago può trasformarsi in condanna. Julia Ducournau prende quel clima di sospetto e lo trasforma in visione: il “vento rosso”, un virus immaginario che pietrifica i corpi fino a sgretolarli in sabbia. Un’immagine che unisce orrore e bellezza: i malati diventano fragili statue di marmo, reliquie viventi destinate a sgretolarsi.
L’atmosfera che avvolge il film è livida, impregnata di grigi e neri che inghiottono ogni speranza. Gli ospedali appaiono come necropoli moderne, pieni di corpi in transizione tra carne e pietra, mentre le periferie francesi decadenti – scuole scrostate, palazzoni anonimi, piscine scolastiche trasformate in teatri di panico – diventano lo specchio di un’epoca malata. È un contesto claustrofobico, dove la paura non è solo del virus ma dello sguardo degli altri. Ed è lì, nel cuore di questa decadenza collettiva, che l’adolescenza di Alpha si fa rito di passaggio.
Legami di sangue, legami di pietra
Al centro del film c’è Alpha, una tredicenne alla quale Mélissa Boros dona un volto duro e fragile insieme, con quello sguardo che mescola sfida e paura. Quel tatuaggio inciso con un ago sporco non è solo un gesto di ribellione: è stigma, marchio di esclusione, ferita che la separa dai coetanei. Alpha cresce troppo in fretta, costretta a fare i conti con il sospetto del contagio e lo sguardo crudele degli altri, che la trattano come un mostro.
Accanto a lei, la madre: Golshifteh Farahani incarna una donna spezzata in due, medico inflessibile tra le corsie infestate dal “vento rosso”; sorella ferita in casa, dove la dipendenza del fratello si divora tutto. Cerca di salvare tutti – la figlia adolescente, il fratello tossico, i pazienti che si sgretolano davanti ai suoi occhi - ma rischia di dissolversi lei stessa, schiacciata da un mondo che crolla.
E poi c’è Amin, lo zio. Tahar Rahim lo porta in scena come un corpo scavato e un’anima sospesa. Tossicodipendente e infetto, è al tempo stesso tragico e vitale. Con Alpha costruisce un legame segreto, fatto di dolore e tenerezza, di complicità tra due esclusi. Non vuole morire in ospedale, rifiuta la lenta pietrificazione: sceglie la libertà amara della sabbia che vola via.
Insieme formano un triangolo emotivo che pulsa di malattia e disperazione, ma anche di un amore ostinato che resiste, più duro della pietra, più forte di ogni virus. La dinamica familiare è il cuore pulsante di Alpha: un dramma intimo travestito da body horror, dove la carne malata e il sangue infetto generano legami disperati e assoluti.
Ferite sulla pelle
Ci sono momenti in Alpha che restano incisi nella retina come ferite aperte, sequenze in cui la visionarietà di Julia Ducournau esplode e lascia il segno.
La prima è la piscina insanguinata, una rievocazione postmoderna di Carrie. Alpha, già isolata dai compagni, perde sangue in acqua: il cloro diventa rosso, il panico dilaga, e lei rimane sola, intrappolata nel vortice dello sguardo collettivo come un mostro involontario. È l’incubo adolescenziale al suo massimo: il corpo che tradisce, l’umiliazione pubblica, la paura che diventa spettacolo.
Poi arriva la festa punk degli infetti, forse la sequenza più selvaggia e vitale del film. Alpha e Amin si gettano in una comunità di corpi marchiati che ballano disperatamente, come se il domani fosse già condannato. È un inno di carne e sudore: la malattia come barriera, ma anche come scudo, un’energia di ribellione che trasforma la condanna in libertà effimera. Qui la Ducournau ritrova il turbine visionario di Raw e Titane: un caos ipnotico, metà estasi, metà abisso.
Infine, il finale nel vento rosso. Amin, allo stremo, rifiuta la pietrificazione ospedaliera e sceglie di dissolversi in sabbia. La sua morte non è immobilità , ma trasformazione: polvere che vola via, memoria che si disperde nell’aria. Alpha e la madre lo guardano svanire, impotenti. È un addio straziante e poetico, in cui l’orrore si tramuta in elegia, e la morte diventa fragile bellezza.
Tre scene, tre vortici emotivi: la vergogna, la ribellione, la perdita. Sono loro a formare la spina dorsale di Alpha: un cuore pulsante di sangue, musica e sabbia.
Il contagio come metafora, l’adolescenza come ferita
Il cuore di Alpha pulsa nelle sue allegorie. Il virus del “vento rosso” è invenzione narrativa, ma il suo significato è lampante: un doppio specchio dell’AIDS e dello stigma sociale che devastarono gli anni ’80 e ’90. Non è soltanto la paura del contagio fisico a dominare, ma quella più crudele: il contagio degli sguardi, l’emarginazione, l’etichetta del “diverso” che diventa condanna.
Aghi, sangue, test clinici scandiscono il film come ossessioni ricorrenti. Ogni puntura è una ferita che non si rimargina, un monito costante al rischio di dissoluzione. Le immagini rimandano direttamente all’iconografia di opere come Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino o Notti selvagge di Cyril Collard: corpi giovani divorati dall’eroina e dall’AIDS, adolescenze interrotte dal contagio e dalla paura.
Ma al centro c’è soprattutto il rito di passaggio di Alpha: diventare adulta significa immergersi nel dolore, affrontare lo stigma, vedere il corpo tradirsi e mutare in nemico. L’adolescenza diventa malattia, il sangue diventa vergogna pubblica, l’umiliazione diventa condanna sociale. La Ducournau racconta una crescita che non ha nulla di luminoso o liberatorio: è un corridoio buio, stretto, dove ogni passo è contaminato dalla paura di non farcela.
Ma c’è un ulteriore livello, ancora più sottile: il contagio come perdita della purezza. Alpha e la sua famiglia hanno origini berbere: nelle scene domestiche con i parenti la lingua madre riaffiora, come un legame intimo e ancestrale che resiste. Ma fuori casa, nel mondo della scuola e della città , Alpha cerca invece di assimilarsi agli usi e ai codici di una capitale europea: feste, tatuaggi, ribellione. L’infezione diventa allora metafora di un passaggio culturale oltre che fisico: la contaminazione non solo del sangue, ma delle radici, delle identità che si sfaldano e si ricompongono in un mondo che divora le differenze.
Dal fragore al sussurro: il requiem intimo della Ducournau in Alpha
Con Alpha, Julia Ducournau sorprende e spiazza. Dopo l’anarchia visiva di Raw e il delirio meccanico di Titane, sceglie una via diversa: non più l’esplosione del body horror, ma il respiro affannato dei corpi in disfacimento. La sua regia si incolla agli attori come un’infezione invisibile, segue i loro movimenti con notevole eleganza. È cinema meno spettacolare, ma più viscerale: un contagio emotivo.
La fotografia disegna un contrasto lacerante: i ricordi dell’infanzia hanno ancora i colori saturi della vita, mentre il presente è livido, spento. La memoria illumina, la realtà avvelena. A questo si aggiunge un lavoro sonoro magistrale: la colonna sonora non accompagna, lacera; non sottolinea, urla sottopelle.
Alpha resta un film potente, probabilmente il più personale della regista. La mutazione e la diversità sono ancora il cuore della sua poetica, ma questa volta la trasformazione riguarda i legami: legami di sangue, di lacrime, di polvere; legami coi virus, con le droghe, con la paura che scava nel corpo come un ago.
Non mancano i limiti: i continui salti temporali disorientano, rischiando di soffocare il dramma familiare che sta al centro della vicenda. E il virus pietrificante, invenzione visiva affascinante, non viene spinto fino alle sue estreme conseguenze, restando secondario rispetto al filo narrativo familiare.
Eppure Alpha lascia un segno indelebile. Non è più un film che esplode, ma un film che sussurra e scava, un requiem sporco e sanguigno sull’adolescenza e sulla perdita. Uno dei film più emozionanti e struggenti dell'anno.
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