Alice in Paranoid-Land: THE SWEET EAST (Sean Price Williams - 2023 USA)

Cosa succede quando Alice, invece del Bianconiglio, incontra in un incel armato fino ai denti?
Succede The Sweet East: un viaggio negli Stati Disuniti D'America. Un film lisergico, anarchico e velenosamente comico che attraversa il caos contemporaneo americano, tra comuni post-hippy, suprematisti dandy, drammaturghi radical, jihadisti ravers, sette esoteriche, deliri ideologici, meme viventi, etc. etc.

Un’odissea psichedelica in un'America in delirio.
Un viaggio fuori di testa dentro una nazione fuori di sé.
Curiosi? Tenetevi forte: ci porteremo anche voi.
Seguiteci.


Alice nel Paese delle Paranoie

Alice si è persa in Paranoid-Land. Il Paese delle Meraviglie si è ormai dissolto, e forse non è mai esistito. Rimane quel che resta dell’America contemporanea: paranoica, ultra-mediatica, radicale fino all’idiozia. Una nazione che si regge su ideologie condivise su Instagram, vite da reality e religioni da magic shop. 

Lillian (la bellissima e bravissima Talia Ryder) è una moderna Alice: un’adolescente con lo sguardo perso e la capacità di attrarre ogni varia umanità. Durante una gita scolastica a Washington, finisce nel bagno di un karaoke-pizzeria, giusto in tempo per sfuggire a un massacro complottista ordito da un Incel imbruttito, in pieno stile Pizzagate. È il primo atto di una fuga allucinatoria.

Da lì in poi, tutto accade e niente ha senso.

Lillian viene salvata da Caleb (Earl Cave, il figlio di Nick Cave), un punk radicale con più piercing che neuroni, e trascinata in una comune da centro sociale post-hippy: video-arte, anarchia clownesca, droghe e tanta confusione ideologica. Ma è solo l'inizio.

Il secondo atto dell’odissea? Un conciliabolo razzista in aperta campagna, dove incontra un romantico professore suprematista: lui la ospita, la venera, prova a istruirla su ogni tipo di complottismo QAnon, intanto la veste come la madre morta. Ma Lillian non si fa incantare: lo seduce con passività e poi lo deruba. E lo rovina.

In fuga col malloppo, chi puoi incontrare a New York se non due cineasti radical chic? La trasformano in un diva indie. Ma anche qui, la narrazione si autodistrugge: i suprematisti tornano a cercarla, scoppia una sparatoria splatter e Lillian si dissolve di nuovo nel paesaggio.

Fuggitiva ormai per destino, finisce in una foresta del Vermont, dove un ragazzo immigrato la conduce in una comunità islamica radicalizzata, che unisce il culto di Allah con quello verso la più becera dance anni ’90. Lillian è rinchiusa e velata, probabile futura sposa musulmana. Tentativo di evasione: riuscito. 

Ultima fermata: una setta esoterica, guidata da un santone da discount. Ma Lillian è ormai immune al delirio circostante, gli ride in faccia e si chiede – assieme a noi – "Dove diavolo sono finita adesso?"

Poi, taglio netto: improvvisamente è tornata a casa.
Famiglia, amici, divano, mentre la guerra civile è appena scoppiata in diretta TV. 

Everything will happen!


Lillian, eroina passiva post-contemporanea

Lillian attraversa ogni forma di pastrocchio ideologico possibile: non lotta, non si ribella, ma non si fa coinvolgere. È un corpo che galleggia, una bugia che si adatta, un’eroina amorale che punta solo a sopravvivere. Non è vittima, non è ingenua. Osserva, sorride e poi fugge. Una stratega del silenzio. Testimone silenziosa dell’apocalisse americana.

Talia Ryder la interpreta con una grazia glaciale, uno sguardo sempre in bilico tra l’assente e l’assoluto. Il suo volto – neutro, puro, ma anche sfacciatamente vuoto – è una superficie riflettente. Tutti ci proiettano sopra qualcosa: chi la vuole redimere, chi educare, chi idolatrare, chi possedere. Lei non si oppone, si lascia attraversare. E' una musa instabile, una lolita impassibile, un deep-fake vivente capace di diventare tutto: figlia, amante, terrorista, diva, ostaggio, icona. Assorbe, trasforma, restituisce: è una spugna postmoderna che trasforma l’apatia in carisma, l’inerzia in resistenza. 

La sua forza? Non scegliere mai. Non prendere posizione. Non lasciarsi “leggere”. È la vera eroina del presente: una persona disinnescata, che non esplode, ma si infiltra. Che non si ribella, ma si reinventa a ogni contesto. Un algoritmo umano che risponde a ogni ambiente con la maschera adatta. Ma nessuno sa chi sia davvero. Nemmeno lei.

In questo senso, Lillian è l’eroina perfetta per l’America trumpiana disintegrata: un personaggio vuoto che attraversa una nazione ribollente, dove prendere una posizione è davvero troppo rischioso. E allora si diventa tutto, per non essere niente.


Il Manuale del giovane regista indie

Guardare The Sweet East è come sfogliare il taccuino del perfetto regista indipendente. Girato in 16mm, con grana grossa, risoluzione bassa, colori che cambiano a seconda dell’umore, della scena o dell’ideologia in corso, è un film che non si accontenta di raccontare il caos: lo mette direttamente in scena, lo fa vivere nel corpo stesso dell’immagine. Lo stile visivo diviene parte del messaggio.

Sean Price Williams – che finora aveva firmato la fotografia di pellicole indipendenti – qui si porta dietro tutto l’armamentario visivo accumulato in anni di cinema underground. Ma stavolta è lui il regista: le immagini deflagrano. Nessuna coerenza, nessuna compostezza. Solo una orgia visiva di stili, tempi, influenze e provocazioni. È cinema che guarda il proprio crollo e ci costruisce sopra un collage, una danza macabra di stili e linguaggi, mentre descrive un'America che si frantuma.

Un attimo sei in una sitcom, il minuto dopo in una clip MTV anni 90, poi in un tableau vivente in costume, poi un meme su TikTok, e subito dopo in un delirio visivo sotto acido. Non c’è una grammatica, ma solo impulsi visivi che si accendono e si esauriscono nel giro di poche scene. Lo spettatore letteralmente deraglia insieme al film. 

A completare questo festival di dissonanze, la sceneggiatura firmata da Nick Pinkerton, critico cinematografico prestato (o smarrito) alla scrittura. Il suo script è una mitragliata continua di parole, teorie, frasi fatte e pseudo-verità. Tutti parlano: troppo e ininterrottamente, ma nessuno si ascolta davvero. Ognuno urla la propria ideologia come uno status da condividere, un podcast da registrare, una tesi da esibire. Il dialogo? Estinto. La parola è solo un effetto sonoro intellettuale. Lilian è l'unica a rimanere in silenzio. Affascina senza esprimersi.


Volti noti e camei improbabili

Una delle sorprese più ipnotiche di The Sweet East è proprio il suo cast sbilenco e brillantissimo, popolato da volti noti del cinema indie, vecchie icone di internet, nuove star del web e apparizioni cult. Un’orgia di personaggi e interpreti che, come tutto il film, sembrano messi lì a caso, come un algoritmo di Facebook, in realtà accuratamente programmato.

🔸 Talia Ryder è Lillian: magnetica, enigmatica, inquietante. Un ruolo che la conferma come volto della Gen Z più opaca e ineffabile.

🔸 Earl Cave, figlio del più celebre Nick, è il punk anarchico Caleb: tatuato, strapieno di piercing, totalmente spaesato.

🔸 Simon Rex, già strepitoso in Red Rocket di Sean Baker (Anora), interpreta Lawrence, l’accademico suprematista romanticamente incestuoso: dolce, ripugnante, ridicolo. Semplicemente straordinario.

🔸 Ayo Edebiri (attrice in The Bear) e Jeremy O. Harris (giovane drammaturgo americano in super hype) sono Molly e Matthew, i due cineasti radical chic insopportabili. Un modo per prendere in giro la stessa scena newyorkese che frequentano. Chapeau.

🔸 Jacob Elordi, superstar di Euphoria e Saltburn, si prende una pausa dai ruoli più intensi e truci, per regalare una parodia di se stesso: il super divo stupido e bello.

🔸 Gibby Haynes, frontman dei mitologici Butthole Surfers, è il sacerdote di una delle tante sette surreali che infestano la pellicola.

🔸 Andy Milonakis, super nerd dell’Internet dei primi anni 2000, compare nel ruolo di Jeff, grasso sudato e armato fino ai denti: un ulteriore strato di nonsense situazionista.

E non è finita: una miriade di piccole fugaci apparizioni completano il cast (Betsey Brown, Peter Vack, MiMi Ryder, Ella Rubin, Tess McMillan e Jonathan Daniel Brown): un assurdo incrocio tra il TikTok più becero e i film Criterion più intellettuali.

The Sweet East è dunque anche questo: un esperimento collettivo di caos organizzato.


Satira, provocazione, sperimentazione ... e poi?

A fine film è lecito chiedersi: che cos’è davvero The Sweet East? Una satira feroce travestita da favola indie? O un pastrocchio visivo senza bussola né morale?
La risposta è: sì. E anche no.
E soprattutto: chi se ne frega!

Perché il film di Sean Price Williams rifiuta ogni etichetta, ogni didascalia, ogni presa di posizione. È fascista? Antifascista? Un attacco al woke o una sua amorevole caricatura? Una satira politica o una feroce parodia intellettuale? Ogni possibilità è aperta, ogni lettura è subito smentita. Il caos non si spiega. Si mette in scena. E il film lo fa con uno sberleffo dopo l’altro.

Ogni personaggio che Lillian incontra crede di sapere come funziona il mondo. Il professore suprematista recita Poe tra i cuscini ricamati con le svastiche. I cineasti ultra-radicali blaterano di decostruzioni coloniali e poi girano un film in costume. Gli attivisti punk parlano di rivoluzione mentre sniffano da mattina a sera. I jiadisti radicali si scatenano nei rave party. Sono tutti parte di un sistema che pretendono di criticare. Ridicoli e pericolosi al tempo stesso.

E Lillian? Fluttua tra loro come un fantasma del presente: non li contraddice, non li giudica. Semplicemente li attraversa. È la nostra guida in un mondo dove la realtà ha già superato ogni peggior distopia. Dove l’ideologia è ormai intrattenimento.

In questo, The Sweet East è cinema post-ideologico nel senso più puro del termine: mostra come ogni ideologia sia diventata ormai parte di un teatro grottesco, un merchandising, un semplice meme da postare e condividere. The Sweet East ci mostra tutto senza dire nulla. E non è cosa da poco.


“Everything will happen” ... ma forse è già successo

Alla fine del viaggio – o forse sarebbe meglio dire: della deriva – Lillian è di nuovo a casa. È seduta sul divano, circondata da volti familiari, nella banale vita di sempre di una provincia americana. In sottofondo, la televisione annuncia il disastro: migliaia di morti, forse è scoppiata la guerra civile. Il mondo brucia. Ma Lillian non reagisce. Come sempre niente la scalfisce: si alza e sorride in camera. È qui che The Sweet East lascia il suo ultimo graffio. Una frase sullo schermo chiude il film come una beffa, una minaccia, un epitaffio generazionale:

“Everything will happen.”

Tutto succederà.
Tutto è già successo.
Tutto continua a succedere, ovunque, sempre.

The Sweet East svela, forse, finalmente il suo volto: è un film circolare, una spirale che non porta da nessuna parte, se non sotto la pelle del presente. È una fiaba tossica, che ti accompagna tra incubi e deliri senza mai promettere lieto fine. 

Non ti dice come stare al mondo: ti mostra il mondo com'è. 
Te lo sbatte in faccia: questo è il nostro tempo, arrangiati.
Punto e basta.

Ma in questa scelta – radicale, straniante, feroce – c’è qualcosa di profondamente magnetico. Perché nonostante il caos e la confusione, il film rimane. Ti si pianta in testa.
Perchè The Sweet East riguarda anche te.

"Anche se vi credete assolti siete lo stesso coinvolti"
Fabrizio De André

Posta un commento

0 Commenti