Che cos’è un film quando rifiuta la sua stessa esistenza? E quando un regista tenta di uccidere la sua stessa creatura? Un film fatto per Bene, è tutto ciò e molto di più: un falso (quanto falso?) documentario, che sovverte la pulizia della narrazione tradizionale, con un regista che scompare lasciando agli altri (allo spettatore, al suo amico Cantone, al produttore Occhipinti) il compito disperato di inseguire la sua ombra. Volete aiutarci a cercarlo? Seguiteci.
Come Carmelo Bene predicava il disfarsi del linguaggio e dell’io, così Maresco scardina il proprio film dall’interno, lo auto-distrugge per restare fedele al suo motto: “il cinema è morto". Maresco non si limita a filmare: spezza, inceppa, auto-sabota, fino a scomparire egli stesso dal set. La sua fuga è al tempo stesso atto di ribellione, gesto politico e personale. Franco Maresco diviene uno spettro che si aggira per il cinema italiano: inafferrabile, sarcastico, rabbioso, allergico a ogni pretesa di forma compiuta. Il suo gesto è un pugno in faccia al sistema produttivo italiano, a un mondo di attori e registi che si auto-assolvono dentro il conformismo.
Maresco, invece, i suoi attori ce li restituisce deformati, ridotti a freaks, puri significanti: corpi privi di significato che incarnano l’impossibilità del cinema stesso. E mentre li dirige, li guarda negli occhi con il ghigno amaro di chi ha scelto il fallimento come unica forma di verità . Maresco, apparendo in scena accanto a loro, si pone al livello dei suoi freaks, li riconosce come fratelli del disordine. Un gesto tutt’altro che banale: è lì, nella condivisione dello scarto, che si compie la sua radicalità .
"Questo è un filmcidio" - Anatomia di una caduta
Un film che implode su se stesso, un set che si trasforma in un caos incontrollato: così comincia la cronaca di un fallimento annunciato. Le riprese del film "su Carmelo Bene” diventano presto una farsa crudele: ciak infiniti, attori allo stremo, incidenti tra il grottesco e il tragico. La produzione stacca la spina: è il filmcidio che Maresco denuncia per poi fuggire, dissolversi. A inseguire questa assenza resta Umberto Cantone, regista e amico, improvvisato detective. Lo vediamo aggirarsi tra Palermo e Cinisi, inseguendo piste improbabili, visitando location impervie, teatri di posa da operetta, consapevole che ogni indizio porterà solo a un altro vicolo cieco. Perché il vero oggetto della ricerca non è il film perduto, ma il gesto stesso di perdere il film.
Tre trame di film si intrecciano vorticosamente, tre arterie di un corpo che sanguina:
Film 1 – Alla ricerca di Maresco. L’indagine di Cantone, la sparizione del regista, le voci che lo dicono impazzito, ossessionato dalla numerologia e dalla paura degli “ultracorpi”.
Film 2 – Il Santo Idiota. Un Bene-movie mancato, sulla fascinazione dell'attore verso la figura di San Giuseppe da Copertino, santo ignorante: frammenti in bianco e nero straordinari, incarnati da Bernardo Greco, “cretino” scelto con criterio. Visioni pasoliniane, liturgiche, schegge impossibili da farsi scena.
Film 3 – Il film segreto. Girato quasi clandestinamente a Cinisi, in uno studio televisivo locale: un piccolo circo di freak fedelissimi che Maresco tortura e plasma, come negli anni di Cinico Tv. Cinema ridotto all’osso, ma più libero: un rituale disperato e comico, fatto di corpi goffi e depensanti.
Nel frattempo, è lo stesso cinema di Maresco a raccontarsi: schegge di Cinico Tv, con i suoi corpi deformi e la sua Palermo devastata; il fantasma censurato di Totò che visse due volte; l’acido necrologio dell’Italia di Belluscone e La mafia non è più quella di una volta. L'intera carriera del regista come un gigantesco trailer di un film impossibile che ancora non riesce (non vuole) concludere.

«Dovete depensare» — Carmelo Bene e la stupidità come abbandono
"A dispetto dell'intelligenza, bisogna essere infinitamente stupidi, per essere nell'abbandono".
Carmelo Bene viene evocato, come una presenza spettrale che trasforma il set in luogo di esorcismi verbali. "Depensare" non è una semplice battuta, è una frusta filosofica. Maresco la lancia agli attori-comparse come un sortilegio: «siccome siete idioti siete i più adatti a depensare». Scordate la coerenza, scordate il senso, espellete il pensiero che vi imbriglia. Maresco odia una certa tipologia di attori, facilmente “contaminabili”, adattati ai meccanismi delle serie tv, alla recitazione industriale. Per lui gli unici interpreti possibili sono i “puri”, gli “stupidi”, quelli che possiedono “il minimo sindacale dell’intelligenza umana”. Attori vergini, senza tecnica, senza curriculum, incapaci di difendersi dalla macchina crudele del cinema. Solo così può nascere verità .
«Oggi un film non lo si nega a nessuno» – Maresco contro il cinema
Carmelo Bene fornisce dunque una strategia di sopravvivenza estetica: il superamento del pensiero e del linguaggio. Maresco se ne appropria per forgiarvi sopra la sua poetica nichilista, scagliandosi contro il cinema italiano, morto a causa di scelte produttive che regalano spazi e strumenti a chi non ha nulla da dire.
"Oggi un film non si nega a nessuno" afferma tristemente il regista.
«Sennò alla mediocrità chi ci pensa?» risponderebbe sprezzante Carmelo Bene.
Risultato? Una produzione smisurata di banalità , di immagini intercambiabili, di film ridotti a merce. Maresco sa di non poter accettare questa logica. E sceglie l’auto-sabotaggio come unica forma di coerenza possibile. Ogni suo set diventa un campo minato: scene interrotte, attori in rivolta, ciak infiniti, riprese abortite. L'atto del deragliare come forma di resistenza. In quest'ottica Un film fatto per Bene è la prova che un film può sopravvivere anche nel non finito, che l’imperfezione può essere materia viva. Una scelta politica, estetica, etica.
"Continuare ad essere la causa di un disordine qualsiasi" resta il cattivo proposito, perfettamente realizzato, da Maresco.

«Un calcio in culo al linguaggio» - Un film come ferita aperta
Le scelte estetiche del regista sono apparentemente inconciliabili: da una parte l’austerità ieratica del bianco e nero in celluloide, dall’altra il carnevale stonato delle nuove colorimetrie digitali. Due mondi opposti che convivono nello stesso respiro, creando una frattura che non vuole mai sanarsi.
Il bianco e nero è nitido, netto, ascetico come un’icona sacra: scolpisce i volti degli attori in statue derelitte, in reliquie di un culto impossibile. Sono immagini che odorano di Pasolini, di un’Italia bruciata dalla povertà e dal sacro, di un cinema che credeva ancora nella redenzione dello sguardo.
Giuseppe da Copertino, il “Santo volante”, diventa immagine-chiave. Il miracolo della levitazione come purezza metafisica ideale; il tonfo come irruzione del reale.
Antonio Rezza che incarna la Morte (omaggio e oltraggio a Bergman), è insieme atto di profanazione e preghiera. Rezza/Morte propone al Santo una partita a scacchi, dimenticando che il "cretino" non conosce le regole del gioco, decretando la vittoria dell'idiota.
E poi, d’improvviso, i colori esplodono come bestemmie: comparse improbabili, esibizioni deliranti, scenette da cabaret grottesco e surreale. Qui Maresco da vita al caos coreografico: la sacralità si scioglie nel blasfemo, la purezza della forma si degrada in farsa. Eppure, proprio in quel caos, scopriamo una nuova estetica sovversiva: la bellezza nasce nel momento in cui la scena fallisce. Ecco il delirio ossessivo compulsivo di ciak ripetuti e mai conclusi: è un metodo. L’incompiuto non è difetto: è ferita aperta non suturata.
Straordinario, in questo senso, il lavoro sul montaggio. Un film smembrato in mille pezzi viene ricucito insieme, tronchi e arti separati tornano un corpo unico: un Frankenstein filmico di difficilissima coesione. In questo assemblaggio impossibile scorgiamo l’anima del film: un corpo che vive perché è fatto di resti, tenuto insieme dalle sue cicatrici.
Il cinema di Maresco è dunque un calcio in culo al linguaggio: rifiuta la linearità , sputa sul codificato, abbraccia il brutto e il dissonante. È cinema che si mostra mentre si rompe, e proprio per questo vibra, più vivo che mai.

«Vedi cos’è il cinema?» – Il teatro della crudeltà da Antonin Artaud a Francesco Puma
C’è una sequenza centrale ed emblematica, che porta l'opera verso vette altissime: quella di Francesco Puma.
Puma, figura già nota al regista (partito dai primi esperimenti con Ciprì e Maresco, finito su Rai1 con Gigi Marzullo), insiste nel voler recitare a tutti i costi nel film. È ingenuo e testardo, perfetta vittima sacrificale. Viene prima circuito e ingozzato, poi seviziato fino agli spasmi: ha un bisogno urgente di andare in bagno. Ma Maresco lo blocca sul set e gli porge un secchio: deve evacuare in scena. Puma protesta, quasi in lacrime, ma il regista lo incalza: «Vedi cos’è il cinema?».
Ecco cosa è il cinema per Franco Maresco: un set trasformato in teatro della crudeltà artaudiano. Un luogo che non accoglie, ma tortura; che non consola, ma smaschera. Fare il cinema come atto di rivelazione e non di rappresentazione: dolore, vergogna, umiliazione. Eppure, proprio nel momento in cui sembra ridurre l’attore al livello più basso, Maresco lo innalza: il patetico diventa sublime, lo scatologico diventa epifania, il comico si mescola al tragico. Ecco allora che la scena, comica e terribile, diventa un manifesto. È il cinema che si fa carne e merda. Perchè la vera arte è sempre un atto di violenza.
Quando Maresco dice a Puma “vedi cos’è il cinema?”, sta parlando a tutti noi. Parla al pubblico che guarda attonito, ma anche agli attori, registi, sceneggiatori e produttori italiani. È un colpo basso, un calcio in culo al cinema ufficiale, a quella comunità da cui Maresco è stato tagliato fuori e che lui stesso ha scelto di rigettare con un auto-esilio feroce.

Intanto la produzione non sa più come salvare il film: ci vorrebbe un miracolo.
«Non parliamo mai più di cinema» – Il finale amaro
E il miracolo avviene davvero: Maresco "appare" al Santo e insieme spiccano il volo. È un’immagine impossibile eppure necessaria: il regista che ha fatto della caduta il proprio linguaggio, ora levita, trascinato in alto da un santo che nella leggenda portava con sé storpi e deformi, salvo poi lasciarli precipitare. Una levitazione che non promette salvezza, che ribadisce la sua inutilità : anche il miracolo non risolve, non guarisce, non chiude. Ma eleva.
Ed è in quell’istante che Maresco pronuncia la frase che sigilla il film: «Non parliamo mai più di cinema». Una rinuncia, un addio, un rifiuto. Ma, come sempre in Maresco, la gravità si capovolge nell’ironia. Perché subito dopo aggiunge: «Parliamo di calcio. Che ha fatto il Palermo?». E così l’arte, il linguaggio, la forma, la vita stessa, tutto si dissolve in una chiacchiera da bar, in un gesto di quotidiana banalità . Un depensamento: il cortocircuito perfetto.
È un epilogo amaro e beffardo, un finale che non è finale, un’immagine che resiste proprio perché non porta da nessuna parte. Come il suo cinema che si tiene in vita grazie al suo fallimento fertile, che resiste al sistema proprio rifiutando di diventare prodotto finito, di farsi addomesticare. Un cinema che ha senso nel difetto, nella cicatrice, nell’incompiuto.
Da Cinico Tv a Cinico TikTok?
Un film fatto per Bene è un film feroce, doloroso e apocalittico. Maresco sfotte, soffre e distrugge, e distruggendo crea. Un atto di coerenza assoluta con il suo stesso programma di incompiutezza radicale.
Eppure, proprio in questo gesto di distruzione, si apre il paradosso. Perché Maresco, con la sua intransigenza, oggi rischia di diventare involontariamente “pop”. In sala, tra applausi fragorosi e risate liberatorie, c’erano intere file di trentenni che non conoscono né Cinico Tv né Carmelo Bene. Una generazione fortemente attratta dalla visione distorna del regista, ma anche irrimediabilmente legata ai nuovi linguaggi di comunicazione. Il rischio, il grosso rischio, è che il cinema di Franco Maresco possa esser trasformato in meme, da condividere su Instagram: da Cinico Tv a Cinico TikTok il passo è breve eppure abissale.
Una punizione che un artista del suo calibro non si meriterebbe.
MAI!
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