Non Vivi Qui, Non Surfi Qui: THE SURFER (Lorcan Finnegan - 2024 USA AUSTRALIA)


"Don't live here, don't surf here"

Così inizia l’incubo paranoico di The Surfer: Nicolas Cage, povero martire in cotone beige, torna nel luogo della sua infanzia sperando di ritrovare sé stesso. Ma trova l’inferno. Un inferno balneare.
Un film assurdo, psichedelico, feroce: come una mareggiata improvvisa, ti trascina al largo, ti sbatte sugli scogli e ti lascia steso, scottato e salato.

Volete anche voi surfare con Cage? Indossate la tuta, tirate fuori la tavola e seguite la scia ...




Benvenuti all’inferno balneare

Immaginate di tornare a casa dopo anni, con il cuore gonfio di ricordi, la testa piena di speranza e un figlio al vostro fianco. Volete solo ricominciare. Ricostruire. Rivedere quei tramonti che guardavate da bambini, surfare su quelle onde che un tempo sembravano promesse di libertà.

È questo il piano di Nicholas Cage, il nostro protagonista: acquistare la casa sulla scogliera che fu di suo padre, rientrare nell’acqua, rientrare in sé. Ma quella baia non è più la stessa. L’idillio è scomparso. Al suo posto, un microcosmo disturbante: giovani e adulti addestrati alla violenza, un clan organizzato in una gerarchia tribale, regole non scritte che si fanno legge. Una setta esoterica suprematista surfista!


La frase è una sola, secca come uno schiaffo in pieno sole: “Non vivi qui. Non surfi qui.”

Un sogno di riconciliazione si trasforma in un incubo psicologico fatto di persecuzione, degrado, rituali grotteschi e ossessione crescente. Il mare non accoglie: respinge. La sabbia non consola: brucia. E quell’onda, che doveva portarlo verso la salvezza … potrebbe travolgerlo del tutto.

Ed è lì che monta l'onda. E' li che lentamente sale la "Cage rage".



Guardare al passato col sale negli occhi

The Surfer non è solo una storia di scontro, ma di ritorno. Cage interpreta un uomo logorato dalla vita, ferito da un matrimonio alla deriva e da un figlio che gli scivola tra le dita come sabbia finissima. E allora torna lì dove tutto è iniziato: nella baia della sua infanzia. Vuole rimettere insieme i pezzi. Vuole sentire di nuovo l’odore del sale che portava suo padre, vuole trasmetterlo al figlio. Vuole ritrovarsi, riconoscersi. Respirare. Tornare a vivere.

Ma quella baia non è più un rifugio. È una prigione tropicale, una palestra di virilità tossica. Il mare non è più un grembo, ma un’arena. I ricordi si deformano, la nostalgia si corrompe. E ogni tentativo di connessione – con il figlio, con il passato, con se stesso – viene respinto da muri invisibili fatti di sguardi ostili, codici tribali e testosterone rancido. E violenza, assurda e cieca.

Cage cerca redenzione, trova ostilità. Cerca il padre, trova un branco. Cerca amore, trova odio. E allora inizia a scivolare, poco a poco, verso il silenzio, l’isolamento, la follia.



Da manager ingessato a predatore affamato: la metamorfosi di Cage

All’inizio è un semplice uomo d'affari, con un lavoro e una sua dignità. Camicia stirata, auto lucida, sguardo deciso. Un businessman un po’ goffo ma determinato, uno che pensa di poter risolvere tutto con una stretta di mano, un gesto gentile, un sorriso di circostanza. Ma la baia non funziona a logica: funziona a dominio. E Cage, da subito, è un intruso.

Così, lentamente, comincia a perdere pezzi. Prima la tavola. Poi le scarpe. Poi il telefono. Poi la macchina. Poi il rispetto. E poi, infine, se stesso. La civiltà si stacca da lui come la pelle dopo una scottatura. Cage si sporca. Si affama. Si spoglia. Muta. Mangia uova crude carpite da un nido, beve da pozzanghere torbide, fruga nei cespugli in cerca di insetti proteici, dorme tra i detriti come un cane abbandonato.

Non parla quasi più. Ringhia, osserva, si mimetizza. Si fa predatore. I suoi movimenti diventano istintivi, animali. Il suo volto – catturato in grandangoli distorti e saturati dal sole – è un paesaggio arso dalla follia. E tu, spettatore, non puoi far altro che seguirlo in questa lenta e terrificante mutazione, mentre il sole picchia sempre più forte e la realtà diventa un miraggio.

Non è più un uomo. È un’allucinazione a forma d’uomo. E il film letteralmente esorbita.



"Non puoi fermare un’onda. O la cavalchi, o vieni spazzato via."

Dimentica le esplosioni isteriche da meme, le urla animalesche da compilation YouTube. Qui la "Cage Rage" non è uno scatto improvviso, è un’ebollizione lenta. Una febbre che sale lentamente. È un silenzio pesante che diventa ringhio e poi un urlo.

All’inizio Cage incassa. Subisce. Sta zitto. Cerca di restare razionale. Ma ogni giorno la baia lo deruba di qualcosa: oggetti, affetti, dignità, lucidità. E quella rabbia, che all’inizio era solo frustrazione, si fa ossessione, poi furore. Poi, qualcosa di più oscuro.

È come un’onda lontana che cresce a ogni risacca. Si gonfia, si carica, si trascina dietro detriti e dolore. E tu la senti arrivare. Lo senti Cage trattenersi. Lo vedi mentre si logora, si trattiene, si spezza dentro … finché non ne può più.

E quando finalmente esplode — sì, esplode — lo fa come un’onda che si abbatte sulla scogliera. Violento, implacabile, quasi mistico. Ma non è la classica catarsi: è un’esplosione che lascia più domande che risposte. Il finale non consola. Spiazza. Devasta. Ti lascia lì, in ginocchio, come lui.

La furia sublimata che si trasforma in nera poesia. 



Oz exploitation: lisergia australiana

Guardare The Surfer è come svegliarsi sudati dopo aver dormito troppo sotto al sole: tutto pulsa, tutto sfuma, tutto brucia. Lorcan Finnegan dirige come se stesse filmando un incubo tropicale: i colori sono ipersaturi, il mare ha un verde tossico, il cielo un azzurro irreale. Altro che Surfers Paradise. Qui siamo in piena Surfers Paranoia!


La camera si avvicina troppo, si abbassa troppo, deforma i volti in grandangoli da delirio. Le inquadrature sono tese, claustrofobiche, schiacciate dal peso del cielo e dalla paranoia che aleggia su ogni granello di sabbia. E poi c’è la colonna sonora, firmata François Tétaz: jazz psicotropo, accenni retrò, melodie che sembrano uscite da un disco impolverato trovato in fondo al mare.

L’intera esperienza è lisergica. Visivamente abbacinante. Sembra di essere sotto acido, ma con la pressione psicologica di una rissa imminente. È un cinema che lavora sulla tensione mentale, dove la follia si spalma sulla pelle come crema abbronzante.

Un film che è una allucinazione tropicale, un miraggio tossico.

E al centro di tutto? Cage.
Perso. Sciolto. Sublimato. Risorto.
Con la sua anima arsa dal sole e svuotata dal dolore.


The Surfer è davvero una esperienza cinematografica estrema.
E' un’onda imprevedibile, che ti solleva, ti sbatte, ti disorienta. Ti fa perdere l’equilibrio, la direzione, la testa. Ma se resti in piedi fino alla fine, se non molli la tavola … ti lascia qualcosa.
Una cicatrice, forse. Una visione. O solo il sapore salato della sopravvivenza.

Non vivi qui? Non importa. Per un’ora e mezza, puoi surfare anche tu.
E quando alla fine arriva l’onda più alta e violenta mai vista prima .... tu e Nicholas Cage potete solo scegliere di cavalcarla. O affondare per sempre.

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