Delizie di Arte Cacaista: Il Gigante Accovacciato di Cinecittà

Delizie di Arte Cacaista: Il Gigante Accovacciato di Cinecittà


Eccoci finalmente tornare sul luogo del diletto, diletto chiaramente cacaista. Nella prima parte dello speciale, Gabriels ci ha introdotto alle delizie dell'Arte Cacaista, ma lo avevamo interrotto proprio nel momento dello svelamento di un grandioso esemplare di tale corrente artistica. Ridiamo dunque prontamente parola al nostro autore.

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È nota a ognuno, anzitutto, la cinica entelechia (termine aristotelico: pieno sviluppo della realtà, ndr.) che, facendo centro nella città di Roma, come forza eternamente attiva tutto riconduce dall’ecumenismo alla latrina, dall’escatologia alla scatologia. Non sorprenderà allora che per lumeggiare l’estetica cacaista si faccia riferimento a un prezioso reperto romano, finanche romanesco: la statua di gigante accovacciato e portatore di torcia collocata nella parte posteriore dello stabilimento di Cinecittà.

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Un muro di cinta accompagna con cementizia disinvoltura di Lager l’anodino dipanarsi di Via Raimondo Scintu, l’eroe di Guasila.

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Il cine-occhio vi riconoscerà all’istante nientemeno che un residuo della scenografia del Ben Hur – per la precisione uno dei colossi al centro della arena dove ha luogo la prestigiosa corsa delle bighe. 

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Il gigantone togato è stato parzialmente modificato nella postura da ignote maestranze, il braccio destro elevato per innalzare al cielo una torcia dalla idealtipica forma di cono gelato trigusto, sulla cui circonferenza maggiore si arrotola un cupo filatterio: «La Città del Cinema». Con un gusto debitore sicuramente della lezione stilistica dei trofei di calcetto (che si svolgono del centro sportivo difronte, ndr.), la fiamma ardente è stata stilizzata nella forma di una pellicola filmica che ascende svolgendosi a spirale.

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Trattasi indubbiamente di ready-made (oggetto prelevato dal suo contesto ed esposto come opera d'arte, ndr.) rettificato. L’operazione tuttavia non ha il senso del gesto iconoclastico dada o surrealista (i baffi alla gioconda, la venere a cassetti, il ferro da stiro chiodato), e si localizza piuttosto a metà strada tra la goliardata (la classica foto ritoccata), il ghiribizzo kitsch autostradale (il Prigione di Michelangelo con abat-jour in testa), l’hobbystica monumentale e l’atto vandalico disinteressato. 

La goffaggine abituale di tutti i montaggi, gli sfregi e gli oltraggi tocca però qui il limite non comune dell’ossimoro, e forse del paradosso, essendo l’immagine di un tedoforo accasciato paragonabile al monumento di un corridore slanciato nell’esser seduto, al do di petto di un cantante sordomuto, al gancio esplosivo di un pugile monco.

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Alla non-idea corrisponde logicamente – coprologicamente – la non-materia. La patina di vernice che simulava il bronzo si è infatti disciolta in guano marrone, sorta di chiaroscuro fecale, denudando a tratti un’epidermide gommosa e biancastra, una scorza di pura vitiligine costellata di ulcere scabbiose. Si intravedono così strati sottostanti di venature metalliche, reticoli arrugginiti, centine e longheroni di voli tarpati sul nascere, tignose impalcature di ferraglia e lamiere sgangherate da baraccopoli dell’anatomia.

La muscolatura tassellata, la pellaccia fittamente sezionata per il trasporto, abbinata alla fiaccola gelato, evoca peraltro l’ambigua idea del mostro della Shelley: raffazzonato pupazzone necrofilico, tignoso patchwork obitorio e «moderno prometeo», nonché archetipo vivente – in quanto già morto – del non meno abusato ready-made.

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Ma è inutile tergiversare. Indubbiamente l’opera presenta ciò che sin dall’inizio era merda. Come ready-made, intendiamo dire, l’opera è un "objet trouvé", ed essendo l’oggetto trovato un falso bronzo e un vero «bronze» (in senso flatulento, ndr.), una finzione d’opera e un’autentica cagata, l’opera è e non può non essere una cagata trovata: un "bronze trouvé". 

Ma ciò che realmente conta qui è quello che l’opera rappresenta, la sua rappresentazione. Quest’ultima eccede di molto l’occasionalità e la distorsione della rettifica.

L’immagine artificiosa dell’araldo del cinema italiano, la finzione del tedoforo filmico, la forzatura auto promozionale, non può contrastare l’evidenza intimista, universale e incontenibile della verità scatologica; l’impalcatura dell’über-fantoccio felliniano non può reggere di fronte alla catastrofe di una Naturgeschichte (Storia Naturale, ndr.) che è pura urgenza sfinterica. Lo certifica il genio popolare: «contro il culo e la corrente non c’è forza competente». 

E non c’è forza che possa negare la plastica solidità della Pathosformel (archetipi che attraversano i secoli della storia dell'arte, ndr.) coprotipica: l’opera rappresenta inequivocabilmente il gesto di un immemorabile cacatore notturno, di un defecatore campestre, finanche agreste, che sotto il braccio sinistro custodisce un rotolone di antica carta da culo (papiro, pergamena, «pantera» ante litteram), e col destro erge la fiaccola che illuminerà l’escremento a cose fatte, secondo la classica polarità di luce e materia oscura, face e fece.

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Rileveremo, anzitutto, come un primo simbolismo del nostro capolavoro sia ovviamente trascendentale: la scultura del cacatore illuminante mette in scena e illumina in primis l’origine della scultura stessa come attività scatofilica. 

La scultura, come suggerisce la psicoanalisi, è un piacere gastrobarico, anale, sfinterico, merdoso, intimo, solitario, di intimità e solitudine rettali, d’ispirazione batischia, di umbratile, capricciosa, feticistica costipazione, di collezionismo ed esibizionismo fecali (lo mostra bene la Big Clay #4 di Urs Fischer, evidente evocazione autobiografica di infantile modellazione stercoraria, e istintivo pendant della Main de Dieu di Rodin). 

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Un secondo livello simbolico potrebbe essere, ed è, di ordine socio-politico. È sin troppo facile, in effetti, l’accostamento tra il tedoforo romano accovacciato e la sua analoga newyorchese, la Statue of Liberty. Scontata è l’asimmetria tra la donna-fallo eretta, altera, superciliosa, managerialmente proterva, e il prostrato incontinente italico; tra l’autentica modernità della gigantessa metallica e la finta archeologicità del pupazzone stercorario; e insomma tra lo stellare, puntuto monumento alla liberta morale e l’exuvia raffazzonata in economia per celebrare la schiavitù ventrale. 

Troppo agevole e impietoso il paragone tra la madrepatria maestosa, retorica e trionfale del Kolossal originario e l’epifenomeno di paese con culo paternamente e fisiologicamente a terra, soverchiamente cinico l’agguaglio tra la ricca sfinge e il povero sfintere. 

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Sì, oltremodo impari e crudele il confronto. E forse fuorviante. 

Anzitutto perché a ben vedere la questione è squisitamente nazionale. Si modula qui, infatti, la storica tensione patria tra il tormento del prigione wildtiano e l’affezione emorroidale, tra l’estremo sacrifizio del Vir temporis acti e la colica intestinale, tra il fatalmente angosciato e il fecalmente accosciato: «Siam pronti alla morte/L’Italia cagò!». Cacare non è solo un gesto democratico e fecondante, ma fondante, fondativo, originario, e perciò anche in questo caso trascendentale.

Ulteriore livello: filosofico-antropologico, e perfino architettonico. L’accovacciato mostra indubbiamente il legame tra fetale e fecale. Narciso rovesciato – che rivolge non all’acqua ma alla terra l’occhietto cieco del deretano e «la testa fumante del capitone» (Apollinaire): il bidet verrà in seguito –, il cacatore en plain air è allo stesso tempo adulto ed embrionaccio, uomo e donna, guerriero e madre; è fortino, prototipo di tempio e capanna della nascita, presepio. E infatti la figura del caganer, del cacatore accovacciato, è sempre presente nei presepi catalani come simbolo di fertilità, di buon augurio, e, oseremmo dire, come segno dell’unione di cielo e terra, divino e terreno, escatologia e scatologia. 

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Potremmo continuare, e continuare, e continuare ancora, se la merda non eccedesse appunto il tempo, e se ogni bel giuoco non dovesse per sua natura durar poco – soprattutto il giuoco fecale, che nasce, oseremmo sostenere, aspirando già circolarmente al compimento come finale circonvoluzione, al ricciolo ambiguamente furtivo.

Torniamo dunque al capolavoro cacaista quale opera che non solo presenta o rappresenta, ma che presenta rappresentando e presentando rappresenta, che testimonia, e testimoniando incarna. Ecco: nell’Homo defecans di Cinecittà si manifesta questa tipologia e il suo miracolo tipico. Che ora chiariremo. Dunque attenzione al massimo.

 

Come c’è un itinerario miracoloso del bello, che a partire dalla densità della forma compiuta ci spalanca l’orizzonte dell’ambiguità più inesauribile, gli abissi della rilettura, così c’è un miracoloso itinerario che, a partire dall’ambiguità e dalla molteplicità simbolica, ci riconduce all’univocità incolore dello squallore, alla sua azzurrina vicinanza, alla sua cristallina, insapore evidenza. Questo è il miracolo puro e semplice e il contrassegno inequivocabile dell’autentico capolavoro cacaista. Null’altro. Il che è già un’enormità.

Nella fattispecie il nostro Gulliver fecale irradia tutt’intorno un campo di forze cacaiste, riconfigura lo spazio e i segni in senso stercorario con la lievità di una barzelletta sconcia raccontata da un suicida. Gli alberi che immediatamente lo circondano si trasfigurano in frasche e cespugli, atti a garantire al gigantone l’illusione suburbana di una bucolica, anale intimità. 

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Il muro dello stabilimento, investito dallo squallore defecatorio originario, si compatta in interminabile, plissettata striscia di Klopapier (carta igienica, nd.) nazionalsocialistica, merlettata di filo spinato rugginoso: cemento e rovo metallico alludono silenti al tormento di una stipsi il cui doloroso emblema è l’icona enfiata di Costanzo, allegoria senza malinconia, malamente dipinta a spruzzo in un imprecisabile punto della cinta lageristica. 

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E se la bruttezza del presente ha valore retroattivo, come notava Kraus, anche dello Scintu, l’eroe di Guasila e della via attigua al nostro polo irradiante, si dà solo evocazione rettale: l’immagine postbellica di un ventennio di seggiolone emorroidale e aerofagica rassegnazione nella Azienda delle Tramvie del Comune di Roma (dove l'eroe fu assunto dopo la Prima Guerra Mondiale). 

Tutt’intorno, poi, merda umana e disumana. Antieroi dello scatolume chiamati a raccolta dalla torcia del gigante-faro. 

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I morti viventi in fila agli sportelli dell'Inps di via Quintavalle. I vivi morenti accalcati fuori dal Centro per l'Impiego di viale Vignali. La massa amorfa e coprofagica di Cinecittà due: Fekaliendramen (i Drammi Fecali di Werner Schwab, ndr.). I consumatori di merda. E i produttori di merda. In merdosa armonia prestabilita. Scatologicamente inscatolati. Eppure estatici. Di estasi cacaista.

L’opera cacaista non redime certo lo squallore del mondo, non ne ha la pretesa. Ne fa piuttosto parte; dall’interno lo illumina, in occasione dall’evento fecale. Cacando – più giusto sarebbe dire caccheggiando, o merdeggiando, e finanche stronzeggiando, in analogia con la broccheggiante brocca heideggeriana – ne fa emergere, senza giudizio, in trasparenza, la natura merdosa. 

Delizie di Arte Cacaista: Il Gigante Accovacciato di Cinecittà


Il capolavoro cacaista conserva, forse, di un possibile simbolo materiale solo il collassare del contenuto sulla forma. Ma l’implosione è un momento, la sistole di un’orgogliosa diastole, di una sempre troppo superba «enflure», direbbe il moralista Pierre Nicole (il filosofo si riferisce al rigonfiamento dell’anima che porta l’uomo a ritenersi qualcosa di più del nulla che è).
Questo gonfiore, d’altronde è solo il preludio di un peto ideale, di un afflato insieme grandioso e sommesso, che tutto avvolge in un tiepido abbraccio, in un araldico, ecumenico appello etico-estetico: «Merdacce di tutto il mondo unitevi!»

Sì, il cacaismo in fondo è un umanesimo. Senza disperazione e senza nausea, dello squallore rimane un sorriso sommessamente materno e benevolo, forse ebete. Ecco: il capolavoro cacaista mostra il volto materno del brutto, irradia anzitutto l’aura fecalmente consolatoria e umanissima dello squallore come tepore coprofilico della comunità, lo fa risaltare e risplendere senza speranza e senza disperazione in ciò che è già da sempre sotto i nostri occhi. Poi si vedrà.

Delizie di Arte Cacaista: Il Gigante Accovacciato di Cinecittà

 
Anche noi, si dirà a questo punto, siamo stati rapiti e irradiati dall’aura cacaista. È l’aura cacaista che ci ha posseduti e lacanianamente ci ha parlati. Ci ha dunque fuorviati? Ci ha impropriamente usati? Il nostro elogio del cacaismo è a sua volta frutto e ostaggio di cacaismo? Porsi in opera di cacaismo? Si riuniscono anche in noialtri presentazione, rappresentazione e testimonianza?

Non possiamo saperlo e non possiamo d’altro lato non saperlo.

In questo stato di impellente mancanza, di dubbio irrisolvibile, di sfinterica incertezza, non ci resta che accovacciarci a nostra volta.

Poi si vedrà.

Paolo Gabrielli (Gabriels)

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Chi volesse leggere la versone uncut degli "assaggi" di Arte Cacaista che ci ha regalato Gabriels, con funanboliche citazioni filosofiche, note spaccacervello, maggiori e più puntigliosi dettagli scatologici, potete scaricarne una copia qui, o leggerla direttamente sotto. Lo fate a vostro rischio e pericolo. Fatelo!

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